Domanda
Una cittadina dell’Unione Europea, iscritta come lavoratrice nell’APR di questo comune a partire dal 2011 (e in possesso dell’attestato di regolarità di soggiorno), chiede ora il rilascio dell’attestato d20i soggiorno permanente, allegando documentazione relativa all’attività lavorativa svolta dal 2011 al 2016.
Da questa documentazione emerge che ci sono state alcune interruzioni nel periodo indicato determinate da brevi periodi in stato di disoccupazione e assenze per maternità. Attualmente non lavora, ma aveva maturato il periodo di 5 anni consecutivi nel corso del 2016.
È possibile in questo caso rilasciare l’attestato di soggiorno permanente?
Risposta
Cerchiamo di fare chiarezza relativamente alla questione: in base al comma 1 dell’art. 14 del d.lgs. 30/2007, il riconoscimento del diritto di soggiorno permanente si fonda su due requisiti: la legalità e la continuità del soggiorno.
Nella fase precedente alla sentenza della Corte di Giustizia 21 dicembre 2011 -Procc. C-424/10 e C-425/10, questi requisiti venivano accertati sulla base del d.lgs. 30/2007, in modo analogo all’accertamento dei requisiti richiesti per l’iscrizione. La sentenza della Corte di Giustizia citata, ispirata dal principio dell’applicazione uniforme all’interno dell’Unione delle norme comunitarie relative alla circolazione e al soggiorno, impone agli ufficiali d’anagrafe di rivisitare le precedenti prassi operative, alla luce della nuova interpretazione del concetto di soggiorno legale. Nel dettaglio, la sentenza in questione illustra che “non si può ritenere che il cittadino dell’Unione che abbia compiuto un soggiorno di più di cinque anni sul territorio dello Stato membro ospitante sulla sola base del diritto nazionale di tale Stato, abbia acquisito il diritto al soggiorno permanente in conformità a tale disposizione se, durante tale soggiorno, egli non soddisfaceva le condizioni di cui all’art. 7, n. 1, della stessa direttiva”.
Sostanzialmente, dunque, l’ufficiale d’anagrafe dovrà accertare l’effettivo possesso delle condizioni di soggiorno per tutto il periodo di 5 anni previsto dalla norma e la dimostrazione del mantenimento, per cinque anni consecutivi, di uno dei requisiti della “legalità del soggiorno” indicati dall’art. 7, comma 1, del d.lgs. 30/2007, dovrà essere documentale.
Ovviamente il possesso dei requisiti si può estendere ai famigliari (coniuge, figli minori di 21 anni o maggiori di 21 anni purché a carico, ascendenti diretti a carico, ecc.), e la dimostrazione che deve fornire il cittadino è relativa al fatto di essere stato in condizione di “soggiorno legale” per 5 anni continuativi: in questo periodo deve essere stato un “lavoratore”, oppure un “famigliare” di lavoratore, oppure deve aver posseduto le “risorse necessarie e la tutela sanitaria”.
Sempre secondo la Corte di Giustizia europea, nel caso di brevi interruzioni del possesso dei requisiti di regolarità del soggiorno, durante i cinque anni consecutivi, è necessario applicare il criterio della “proporzionalità”, secondo il quale eventuali brevi interruzioni non devono pregiudicare il diritto del cittadino dell’Unione al riconoscimento del diritto di soggiorno permanente. La difficoltà operativa sta nel valutare cosa si intende per “brevi interruzioni” non essendo possibile definire un criterio univoco, ma risultando necessario valutare ogni singolo caso.
In particolare, il cittadino deve dichiarare:
- di aver soggiornato legalmente ed in via continuativa per cinque anni nel territorio nazionale italiano;
- di non essere stato assente dal territorio nazionale per periodi superiori a quelli indicati dall’art. 14, commi 3 e 4, del d.lgs. 30/2007 (non più di 6 mesi, se non per motivi specifici: militare, studio, gravidanza, etc., comunque non superiore ai 2 anni);
- di non essere stato destinatario di un provvedimento di allontanamento di cui all’art. 18, comma 2, del d. lgs. 30/2007.
Pertanto, nel caso in esame, la cittadina UE ha correttamente prodotto le certificazioni relative al lavoro (vale anche lo stato di disoccupazione involontaria, se c’è stata l’iscrizione al centro per l’impiego dopo aver lavorato, la documentazione che si potrebbe richiede ad integrazione in questo caso potrebbe essere il certificato di iscrizione presso il centro per l’impiego e la documentazione sul rapporto di lavoro cessato involontariamente: lettera di licenziamento, contratto di lavoro a tempo determinato e ultima busta paga, oppure autodichiarazione sulla cessazione del rapporto di lavoro, etc.).
D’altro canto, lo stato di gravidanza, come visto sopra, consente un allontanamento dallo Stato ospitante per un periodo che può arrivare fino a 12 mesi consecutivi, pertanto non dovrebbe destare preoccupazione il fatto che la cittadina non abbia lavorato in detto periodo, tenuto conto anche del fatto che, comunque, in tale caso la tutela sanitaria è garantita. Ad ogni buon conto, si potrebbe interpellare l’ASL per verificare l’iscrizione al SSN.
Nessuna disposizione, del resto, prevede che i requisiti debbano essere posseduti anche al momento della richiesta della relativa attestazione, dopo averli comunque maturati in passato nel corso dei 5 anni continuativi. Il diritto, infatti, matura dopo cinque anni di possesso ininterrotto dei requisiti richiesti e l’attestazione è il riconoscimento di questo stato di fatto. La mancata richiesta dell’attestazione non può inficiare l’acquisizione del diritto. Pertanto, una volta maturato, il diritto non viene perso anche se non ne viene richiesto il riconoscimento.