Domanda
L’Ufficio Personale del mio ente ha ricevuto un certificato del medico di famiglia per un dipendente affetto da patologia cronica, ai fini dell’applicazione dell’art. 26, comma 2, del d.l. 18/2020 (Cura Italia). In ogni caso, il lavoratore attualmente non gode del riconoscimento della condizione di cui alla l. 104/1992. E’ sufficiente la documentazione prodotta per fruire del periodo di assenza previsto dalla norma? E’ sufficiente la certificazione del medico di famiglia o va allegata altra documentazione?
Risposta
L’articolo 26, comma 2, del decreto stabilisce che: ”Fino al 30 aprile ai lavoratori dipendenti pubblici e privati in possesso del riconoscimento di disabilità con connotazione di gravità ai sensi dell’articolo 3, comma 3, della legge 5 febbraio 1992, n.104, nonché ai lavoratori in possesso di certificazione rilasciata dai competenti organi medico legali, attestante una condizione di rischio derivante da immunodepressione o da esiti da patologie oncologiche o dallo svolgimento di relative terapie salvavita, ai sensi dell’articolo 3, comma 1, della medesima legge n. 104 del 1992, il periodo di assenza dal servizio prescritto dalle competenti autorità sanitarie, è equiparato al ricovero ospedaliero di cui all’articolo 19, comma 1, del decreto legge 2 marzo 2020, n.9”.
Nel comma sopra riportato si equiparano le assenze dal servizio prescritte dalle competenti autorità sanitarie al ricovero ospedaliero con contestuale applicazione della relativa disciplina delle seguenti categorie di soggetti:
- disabile in condizione di gravità di cui al comma 3, dell’art. 3 della Legge n. 104/1992 (riconosciuta mediante apposita commissione medico legale);
- disabile derivante da un quadro clinico a rischio, certificato da organi medico legali, ai sensi dell’art. 3, comma 1, della Legge n. 104/1992.
Il Ministero del Lavoro, nella circolare del 24/03/2020, a proposito dell’articolo 26, comma 2, del D.L. n. 18, si è limitato solo a ricordarne i contenuti senza tuttavia fornire indicazioni operative e senza chiarire soprattutto chi siano i competenti organi medico legali che attestano le condizioni di rischio specificate dalla norma.
Specifici chiarimenti sono stati forniti nei giorni scorsi dalla nota della Presidenza del Consiglio dei Ministri, indirizzata agli organi istituzionalmente competenti.
La nota chiarisce che “sono organi abilitati a certificare la condizione di cui all’art. 26, comma 2, sia i medici preposti ai servizi di medicina generale (c.d. medici di base), che i medici convenzionati con il S.S.N. (ai sensi dell’articolo 30 accordo collettivo nazionale per la disciplina dei rapporti con i medici di medicina generale, ai sensi dell’art. 8 del D. Lgs. n. 502 del 1992), la cui qualificazione giuridica è largamente riconosciuta (a titolo esemplificativo, Cassazione Penale, sentenza n. 29788/2017, secondo cui il medico convenzionato con la ASL è pubblico ufficiale con ambito di competenza anche oltre quella territoriale della ASL, in quanto “svolge l’attività per mezzo i poteri pubblicistici di certificazione, che si estrinsecano nella diagnosi e nella correlativa prescrizione di esami e prestazioni alla cui erogazione il cittadino ha diritto presso strutture pubbliche, ovvero presso strutture private convenzionate”.
Le certificazioni di questi medici sono a tutti gli effetti da considerarsi il prodotto dell’esercizio di funzioni pubbliche, dunque proveniente da “organismi pubblici”. Di questo avviso è anche il Consiglio di Stato che, con la sentenza n. 4933/2016, ha riconosciuto che la certificazione rilasciata da professionisti autorizzati a eseguire prestazioni nell’interesse del Servizio sanitario nazionale, può considerarsi proveniente da “pubblico organismo”.
A parere di chi scrive è molto interessante e sicuramente condivisibile la spiegazione che il Capo Ufficio della Presidenza del Consiglio dei Ministri fornisce, nel proseguo della nota, circa l’interpretazione di cui sopra:
«Del resto, non seguendo tale interpretazione della norma si avrebbero due effetti ugualmente e gravemente negativi. La norma è diretta a tutelare persone che, per la loro condizione fisica di estrema fragilità, sono sottoposte ad altissimo rischio della vita stessa, in caso di contagio. E’ quindi primario interesse collettivo tutelarle e ridurne al massimo l’esposizione, ampliando la possibilità di autoisolamento. Viceversa, una interpretazione che restringa ai soli servizi di medicina legale delle ASL la possibilità di certificare, complicherebbe le modalità e le tempistiche di accesso al beneficio, paradossalmente aumentando la circolazione di queste persone.»
Pertanto i lavoratori classificati tra le categorie a rischio potranno astenersi dal lavoro, rimanendo all’interno della propria abitazione e questo periodo di «isolamento cautelativo» verrà equiparato alla condizione di ricovero ospedaliero, quindi con uno stato assimilabile alla malattia (senza l’applicazione della decurtazione di cui all’art. 71 del D.L. 25 giugno 2008, n. 112, convertito in Legge 06 Agosto 2008, n. 133) e come tale retribuito.